Dal mito del buon selvaggio, alla cucina etnica che esplode nei centri delle metropoli, e non solo per appropriazione di spazi da parte di realtà immigrate, come China Town poteva in origine essere a New York.

La fascinazione per il selvatico

La fascinazione per il selvatico, che mi piace sostituire concettualmente alla parola “esterofilia”, è un archetipo. Consente infatti di decifrare quelle che secondo me sono alcune tendenze sociali, ma senza andare necessariamente così in là, degli elementi o “topoi” ricorrenti in qualsiasi disciplina artistica. La fascinazione per le pantere e i velluti rossi-Tiziano nelle tele barocche non è forse il successo dei romanzi dell’infelice Salgari?

Non è forse la traduzione italiana tempestiva dei Canti di Ossian? Tre anni dopo la loro pubblicazione, leggo su Wikipedia, che per l’epoca equivalevano non a un’attesa da parte della comunità scientifica, siamo d’accordo, ma quantomeno a un interesse genuino. Melchiorre Cesarotti, era il traduttore, per informazione.

Il buon selvaggio

Siamo abituati a far nascere il termine in seno al dibattito collegato alla scoperta e sfruttamento del continente americano. Il buon selvaggio di Rousseau è poi quello che ogni cittadino di Stato occidentale può considerare il cittadino ideale.

Salvo poi considerare l’ingentilimento dell’urbanizzazione come necessario per “coltivare” le abilità innate.

Ma non era proprio quello che Rousseau voleva dire, quando si riferiva alla purezza del non civilizzato, diciamo che l’abbiamo attualizzato adagiandolo pragmaticamente sulla nostra società.

La Bohème

Quindi, gli eccessivamente raffinati ma “puri” personaggi della Bohème dovrebbero essere tutto l’opposto di tutto. Figli dell’aristocrazia o media borghesia che scappano a Parigi a fare la vita dissoluta: sono selvatici e provinciali in partenza e poi si raffinano? Ma consideriamo le loro privazioni fisiche, sulle quali i borghesissimi Illica e Giacosa calcano così tanto la mano.

Da raffinati sono diventati selvatici?

Quel che è certo è che il teatro di passioni che la Bohème mette in scena è assai selvatico: emblematico nel concertato del primo atto, prima dei bambini distraenti di Parpignol. Ma anche, nel confronto tra gli amanti angelicati in cui la delicata passione ha tratti prettamente romantici, alla barriera d’Enfer, e l’altra coppia, quella più squisitamente spontanea.

La seconda era probabilmente la selvaggia realtà, la prima un retaggio ancora dell’ingentilimento.

Per chi preferisce la cavatina di Musetta, direi che ha colto il mio punto.