Va bene, ne sono consapevole: parlare dello Stato d’Israele oggi è come cercare di dirimere le questioni di genere. Direi, se non si conosce il pubblico, si rischia di incappare in opinioni forti, quandanche in tifoserie, fatto del quale vorrei scongiurare l’avvento proferendomi in accorate manifestazioni di equidistanza.

Ma anzi, non proferendomi affatto, e dichiarandolo.

Le diaspore

La rivendicazione è un concetto innanzi tutto politico. Chi rivendica va a modificare (ri-) una vendetta (vindico, -are), ovvero va a ricontestualizzare una già precedente modifica dello status quo a proprio favore, verso una cosa che percepiamo come sottratta.

Quale miglior definizione di un sentimento nazionalistico che ambisce a “ricreare” una unità nazionale in seguito a diaspore infinite e studiate nelle scuole occidentali come antonomastiche?

Lo Yad Vashem

Ma vediamo, in cosa differiscono lo Yad Vashem (per chi non lo sapesse, il museo che Gerusalemme dedica alla Shoa, costruito con finanziamenti esteri cospicui, non solo da parte di privati ma anche statali) e il Pantheon parigino?

In entrambi si respira un senso di riappropriazione. Forse, e mi pare una considerazione abbastanza scontata, nella Parigi monumentale e sicura dei suoi 60 anni di pace, la rivendicazione è fuori luogo. A meno di non pensare i problemi che affliggono la capitale francese come vincolanti al nostro giudizio, Parigi forse è concepita come eterna.

La rivendicazione

Invece lo Yad Vashem no. Nonostante la sua forma altrettanto monumentale, anche se decisamente più moderna e “museale”, ha una fattura che esplicitamente richiama i forni crematori, e quindi l’eternità è concepita come una conquista che forse si avrà in futuro, o che si ha come creatura precaria.

Eppure devo dire che l’uscita dal museo, dopo i momenti abbastanza intensi di museo che mostra atti persecutori della peggior specie, si vede la placida città di Gerusalemme. Che quel senso di respiro sia una rivendicazione alla francese?