Una prima di tutto rispetto quella al teatro La Scala di Milano per il don Pasquale, con l’acclamata regia di Davide Livermore.

Sempre una classe d’interpreti degna del luogo nel quale la rappresentazione si svolge, sempre allestimenti perfetti e grande sincronia di corpo, canto e opera.

La regia

Sulla regia devo dire di essere rimasto piacevolmente colpito dalla scorrevolezza delle scene e della messa in scena. Non è facile riportare il don Pasquale con efficacia narrativa, visto che a mio parere è un’opera molto complessa. Anche da spettatore, se non si ha pre-conoscenza della trama è difficile seguire senza perdersi nelle arie, anche non necessariamente quelle più famose.

Ma ecco, la Roma in bianco e nero negli anni del primo boom economico, con Cinecittà, la stazione Termini, e citazioni innumerevoli dalla cinematografia. La vita è bella, non per gli interpreti però, che devono sottostare all’impostazione filologicamente ineccepibile di Chailly.

Ottimi cantanti

L’impasto con l’orchestra, molto presente, è stato comunque buono. Ho trovato, come dice il Corriere, un po’ pallido l’Ernesto di Barbera e un pelo flebile la voce di Norina (Rosa Feola). Per quanto quest’ultima sia un ottimo soprano di coloratura e io l’abbia trovata totalmente credibile.

Evasione dal don Pasquale

Non mi pare che l’evasione dalla sceneggiatura originale sia stata scandalosa, come forse si aspettavano i più cisposi tra noi. Per poi parlarne e creare delle polemiche d’impronta letteraria come quelle dei bei tempi andati, sia ben chiaro. Comunque, la Carmen cubana (per la quale Livermore è famoso) è stata molto più de-contestualizzante. Forse per l’esterofilia, che qui invece è sconfitta in un auto-omaggio: Italiano è l’autore, italiano è il regista, italiana sarà la citazione di costumi e sceneggiatura, benché con ingranaggi ben oliati e spettacolarizzanti per consentire anche ai non amanti del citazionismo scevro di vedere qualcosa di nuovo.

In fondo non mi è affatto dispiaciuta la rappresentazione. Bravo Livermore.