Nel mio post precedente ho iniziato ad affacciarmi sul cosmo parallelo degli Emirati Arabi Uniti.

Abu Dhabi ha da offrire molto al patrimonio architettonico nazionale, e questo è stato compreso dal governo quando si è progettato il polo culturale all’isola di Saadiyat.

Ma parliamo di Zaha Hadid. Ricordo Zaha Hadid più come una conquista culturale, che come un’archistar, quale molti la definiscono oggi. Certo, quando le fu affidato il ponte Sheyk Zayed, la cui costruzione iniziò quasi esattamente un anno dopo la retrospettiva che il Guggenheim di New York fece su di lei, tutto il mondo capì che si andava oltre la distinzione un po’ demodé tra artista-artigiano e archistar.

Il ponte per lo sceicco Zayed è forse uno dei più caratteristici di tutti gli Emirati

Evoca le dune del deserto, ha una forma sinusoidale, richiama il mare e la sua placidità ripetitiva… Molte sono le definizioni, anche ben più entusiastiche, di quello che è il terzo collegamento di Abu Dhabi con la terraferma.

Eppure completamente diverso dall’altro investimento di design dell’architetto iracheno-britannico ad Abu Dhabi: il Performing Arts Centre, da collocarsi all’isola di Saadiyat, ha forme comunque fluide e integrate con l’ambiente circostante. La tensione dell’edificio verso il vicino Golfo Arabo fa sì che la sua colorazione azzurra e i vetri assumano un significato di precisa volontà di integrazione.

Il background gioca un ruolo diverso nel ponte, che come opera urbanistica mira a integrarsi sì, ma rimanendo ben visibile. Comunicando, inoltre, quell’impressione di solidità che un ponte dovrebbe trasmettere. A differenza del Performing Arts Centre, che in un certo modo rimane etereo, mobile.

Personalmente del Centro amo le finestre a forma di foglia. L’idea del bocciolo che si protende verso l’acqua, per le piante vita, è simbolicamente efficace. Se per il local degli Emirati il petrolio è vita, il commercio è il suo necessario corrispettivo strumentale.

Quindi, ancora, l’acqua.